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lunedì 12 giugno 2017
martedì 7 marzo 2017
mercoledì 20 novembre 2013
Dio è morto | Nomadi
Dio è morto (se Dio muore, è per tre giorni poi risorge)/Per fare un uomo
è un 45 giri dei Nomadi, pubblicato nel 1967.
Entrambe le canzoni sono scritte da Francesco Guccini ed inserite nell'album Per quando noi non ci saremo.
Sebbene sia del '65, questa canzone non fu inclusa in "Folk beat n. 1" ma venne portata al successo dai Nomadi. E Guccini la canterà in pubblico soltanto dieci anni dopo, proprio insieme al celebre gruppo modenese.
Dio è morto "parla apertamente di corruzione e meschinità, di falsi miti e di falsi dei. È una canzone importante, [...] che apre la canzone di protesta italiana a temi ulteriori rispetto a quello del pacifismo, e più precisamente veicola un'opposizione radicale all'autoritarismo, all'arrivismo, al carrierismo, al conformismo" [P. Jachia, Francesco Guccini, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 30].
Equivocando sul titolo (che richiama la celebre espressione nietzschiana) e fraintendendo il significato del testo, la Rai censurò questo brano che rappresenta uno dei vertici, non solo della produzione gucciniana, ma dell'intera canzone d'autore italiana. Il sospetto di blasfemia per quanto riguarda questa canzone può infiltrarsi soltanto in una mente ottusa e "malata" (anche se, dicendo ciò, non ho alcuna intenzione di offendere i responsabili di quella censura): ne sia prova il fatto che Dio è morto venne invece trasmessa da Radio Vaticana. Perché? Perché qualche persona intelligente aveva compreso che la canzone in realtà non celebra la morte di Dio ma proclama la necessità di una nuova rinascita spirituale e morale, e rappresenta una critica al "perbenismo interessato", al falso moralismo, all'imperante ipocrisia, al vuoto consumismo, al becero edonismo: e per capire tutto ciò basta fare attenzione alla chiusa, dove di Dio (e non di falsi idoli) si dice apertamente che "è risorto".
In fondo, la "morte di Dio" si è manifestata (si manifesta?) "nelle auto prese a rate... nei miti dell'estate... nei campi di sterminio... coi miti della razza... con gli odi di partito"; ma l'autore pensa che la sua generazione (ed essa con lui, vorrei dire) è preparata
a un mondo nuovo a una speranza appena nata
ad un futuro che ha già in mano a una rivolta senza armi
perché noi tutti ormai sappiamo
che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge.
In ciò che noi crediamo Dio è risorto
in ciò che noi vogliamo Dio è risorto
nel mondo che faremo Dio è risorto.
La ripresa anaforica finale, l'insistenza sulla "resurrezione" di Dio (cioè sull'esigenza di valori etici, e comunque non dogmatici e definitivi), non suona retorica perché se ne avverte la verità profonda, come del resto dimostra una dichiarazione dello stesso Guccini: "Aggiunsi una speranza finale non perché la canzone finisse bene, ma perché la speranza covava veramente".
Vorrei chiudere questa breve analisi citando ancora Jachia, il cui libro è davvero prezioso e fondamentale per capire a fondo l'ideologia e la poesia di Francesco Guccini. Scrive dunque l'autore: "Questa canzone, ma in realtà ogni sua canzone di questo e degli altri dischi, è così non solo una trincea di resistenza etica, umana e civile rispetto all'immoralità politica dominante nel mondo e in Italia, ma veicola al suo interno un'organizzazione logico-estetica capace di sopravvivere al passare delle stagioni e delle mode e alle facili strumentalizzazioni politiche. Non stupisce quindi, ad esempio, il continuo apprezzamento di Auschwitz e Dio è morto da parte dei giovani, laici e cattolici, susseguitisi in questi trentacinque anni" [cit., pp. 31-32].
Ma vorrei chiudere davvero con le parole che lo stesso Guccini ha usati per questi due evergreen: "A volte mi chiedo come Auschwitz o Dio è morto, canzoni scritte nel 1964-66, piacciano ancora così tanto e appaiano sempre attuali... Il merito però, devo dire, non è del tutto mio ma degli sponsor di queste canzoni, i razzisti e gli imbecilli che, a quanto pare, tornano periodicamente alla ribalta".
Giuseppe Cirigliano
Testo e musica di Francesco Guccini
Ho visto
la gente della mia età andare via
lungo le strade che non portano mai a niente
cercare il sogno che conduce alla pazzia
nella ricerca di qualcosa che non trovano
nel mondo che hanno già
dentro le notti che dal vino son bagnate
dentro le stanze da pastiglie trasformate
dentro le nuvole di fumo
nel mondo fatto di città
essere contro od ingoiare
la nostra stanca civiltà.
È un Dio che è morto
ai bordi delle strade, Dio è morto
nelle auto prese a rate, Dio è morto
nei miti dell'estate, Dio è morto.
M'han detto
che questa mia generazione ormai non crede
in ciò che spesso han mascherato con la fede
nei miti eterni della patria e dell'eroe
perché è venuto ormai il momento di negare
tutto ciò che è falsità
le fedi fatti di abitudini e paura
una politica che è solo far carriera
il perbenismo interessato
la dignità fatta di vuoto
l'ipocrisia di chi sta sempre
con la ragione e mai col torto.
È un Dio che è morto
nei campi di sterminio, Dio è morto
coi miti della razza, Dio è morto
con gli odi di partito, Dio è morto.
Ma penso
che questa mia generazione è preparata
a un mondo nuovo e a una speranza appena nata
ad un futuro che ha già in mano,
a una rivolta senza armi
perché noi tutti ormai sappiamo
che se Dio muore è per tre giorni
e poi risorge.
In ciò che noi crediamo Dio è risorto,
in ciò che noi vogliamo Dio è risorto,
nel mondo che faremo Dio è risorto!
venerdì 25 ottobre 2013
Auschwitz | Nomadi
Auschwitz è indubbiamente una delle più celebri canzoni di Guccini, simbolo della sua partecipazione ai drammi umani e del suo intendere la musica non solo come diletto, ma come strumento di denuncia anche se non necessariamente apportatore di rivoluzioni (vedi L’avvelenata). Egli prende in esame il tema dell’olocausto, ma la seconda parte della canzone trascende tale contesto per abbracciare una più estesa riflessione sulla ferinità umana.
La prima strofa presenta la situazione in termini molto schematici: il narratore è un personaggio morto da bambino in una condizione strana, "passato per il camino". L’insistenza sul termine morto in apertura dei primi due versi crea l’atmosfera cupa e nostalgica che accompagna tutto il brano. Da notare è la durezza di quel "con altri cento" che evidenzia l’impersonalità del massacro, sottolineandone allo stesso tempo la dimensione. La prima strofa si chiude poi con la presentazione della situazione attuale; il narratore si trova nel vento.
La seconda strofa, invece, tratteggia la scenografia del dramma ponendo subito in rilievo un nome terribile, evocatore di sofferenza e paura, Auschwitz: l’inverno, il freddo e la neve, che potrebbe essere la gioia di ogni bambino, ma non di colui che si trova lì a morire; c’è poi l’ambiguità del fumo e del camino, che ricordano scene di tranquillità domestica, ma sono qui ben altri segni. La terribile fine è solo accennata, con gusto per così dire classico, senza insistenza su macabri particolari, ma, semplicemente, con l’immagine di un fumo che sale e la presenza di persone che scompaiono, però, per ritrovarsi nel vento.
La terza strofa funge da collegamento tra le due parti del pezzo opponendo alla massa il suo silenzio. L’antitesi crea un efficace sensazione di vuoto, di freddo e morte: questi uomini, ma sono ancora uomini?, non osano più parlare, sono spogliati della propria dignità e individualità, sono tra quei cento o lo saranno presto. Il tempo non cancella quei ricordi nel bimbo morto, egli non riesce a sorridere e si chiede invece, ingenuamente e forse infantilmente, il perché di quelle stragi. E’ questo il momento il cui la prospettiva si amplia e si universalizza quell’esperienza di morte divenendo paradigmatica dell’umana crudeltà. Guccini sembra pessimista, non ha fiducia nell’uomo e nella sua perfettibilità, lo coglie solo nel suo atto crudele: fantastica intuizione quella di porre alla fine di due versi consecutivi i termini uomo e fratello legati dal crudo realismo del verbo uccidere. Al bimbo, e indubbiamente la scelta come narratore del simbolo dell’innocenza e della purezza non è casuale, sembra assurdo che tutto questo sia potuto accadere, ma è costretto a costatare l’evidenza del fatto: "siamo a milioni/in polvere qui nel vento". Ancora un numero enorme, come il cento iniziale, rende l’idea dell’ampiezza del fenomeno esasperandone la gratuità.
La penultima strofa sembra un grido, un grido di rabbia impotente e disperato, la cui forza è ottenuta con sapienti scelte lessicali: il cannone tuona, terribile segno di morte, e il sangue scorre ininterrotto, per culminare con lo stridente contrasto tra questo sangue, l’aggettivo contenta e la connotazione di bestia umana assegnata a tutta l’umanità. Del resto l’impersonalità del termine uomo, usato due volte, sottolinea già da sola come le accuse e le domande siano rivolte all’umanità intera, tutta ugualmente colpevole se non dell’olocausto, di altri innumerevoli assassinii. Terribile è l’epiteto bestia, e ricorda pagine del Principe di Machiavelli, perché presenta l’uomo come bruto, come animale regolato solo da impulsi irrazionali e incontrollabili. Il rilievo conferito in questa sede all’ancora acuisce la durezza delle accuse all’umanità che, nonostante si sia accorta delle proprie scelleratezze, continua a commetterne di nuove ogni giorno.
Tuttavia Guccini non se la sente di chiudere così, vuole lasciare un varco, una via di scampo all’uomo, sperare che si possa ancora redimere: ecco il significato dell’uso del futuro nell’ultima strofa che si apre ancora con un "Io chiedo" che questa volta non è tanto una domanda o un’accusa quanto piuttosto un’accorata preghiera, una speranza che vuole a tutti i costi uscire e realizzarsi e che è tutta contenuta in quel verso "a vivere senza ammazzare", così semplice eppure tanto intenso e diretto.
Non si può ignorare nell’analisi di questo pezzo la presenza del vento, vero elemento costante nella chiusura di ciascuna strofa. Il vento che sembra leggero e spensierato è in realtà greve del peso di tutti quei morti, è un vento irrequieto che sembra schiacciare l’uomo gettandogli addosso le sue colpe, accusandolo con l’innocente, ma per questo più dura, voce di un bambino. In tutte le strofe esso è accompagnato da qui, ancora, adesso, a sottolineare come si stia parlando di qualcosa di presente e attuale su cui è necessario riflettere. Pensare, però, non basta, bisogna, è questo il significato delle ultime strofe, agire e cambiare, solo così "il vento si poserà" .
La canzone non presenta rime, se non occasionali (prima strofa), il suo ritmo è creato piuttosto dalla brevità dei versi, costituiti spesso ciascuno da una frase in sé compiuta, che crea brevi, gelide scene.
Sono tuttavia presenti in due punti cruciali degli enjambements: "non ho imparato/a sorridere" nella strofa centrale sottolinea il dramma che permane negli occhi e nel cuore, che non può e non deve essere dimenticato, un dramma che spezza e smorza il sorriso; "non è contenta/di sangue" indica invece piuttosto la lacerazione del pensiero che non osa immaginare che possa ancora succedere qualcosa di simile, ma è costretto a costatarlo nei fatti e, inoltre, rafforza il contrasto tra contenta e di sangue.
(Analisi collettiva svolta dal Liceo Alessandro Volta di Como)
Auschwitz
(Canzone del bambino nel vento)
Son morto con altri cento
Son morto ch'ero bambino
Passato per il camino
E adesso sono nel vento,
E adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz c'era la neve
Il fumo saliva lento
Nel freddo giorno d'inverno
E adesso sono nel vento,
E adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz tante persone
Ma un solo grande silenzio
È strano, non riesco ancora
A sorridere qui nel vento,
A sorridere qui nel vento
Io chiedo, come può un uomo
Uccidere un suo fratello
Eppure siamo a milioni
In polvere qui nel vento,
In polvere qui nel vento.
Ancora tuona il cannone,
Ancora non è contenta
Di sangue la belva umana
E ancora ci porta il vento,
E ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà
Che l'uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare
E il vento si poserà,
E il vento si poserà.
Io chiedo quando sarà
Che l'uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare
E il vento si poserà,
E il vento si poserà.
Son morto ch'ero bambino
Passato per il camino
E adesso sono nel vento,
E adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz c'era la neve
Il fumo saliva lento
Nel freddo giorno d'inverno
E adesso sono nel vento,
E adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz tante persone
Ma un solo grande silenzio
È strano, non riesco ancora
A sorridere qui nel vento,
A sorridere qui nel vento
Io chiedo, come può un uomo
Uccidere un suo fratello
Eppure siamo a milioni
In polvere qui nel vento,
In polvere qui nel vento.
Ancora tuona il cannone,
Ancora non è contenta
Di sangue la belva umana
E ancora ci porta il vento,
E ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà
Che l'uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare
E il vento si poserà,
E il vento si poserà.
Io chiedo quando sarà
Che l'uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare
E il vento si poserà,
E il vento si poserà.
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